giovedì 30 agosto 2012

Mandello station


*ATTENZIONE: il presente articolo e le foto correlate possono essere utilizzati solo per fini didattici  e informativi ed è consentita la pubblicazione con indicazione di firma, data e sito dell’autore (http://www. rephotowriter.blogspot.it /), si chiede gentilmente di comunicarlo all’autore (danyre@hotmail.it)

Mandello station

La fotocamera, in quanto creatrice di immagini, è in grado di generare miti, cioè può mitizzare ciò che riquadra.

Il mito è un procedimento complesso, come insegna Roland Barths nel testo Miti di Oggi, ed è composto da un doppio sistema dialettico dove segni, simboli e significati del fatto che accade davanti agli occhi si sintetizzano tra loro originano il mito, cioè il termine o la definizione o il nome della cosa che si ha di fronte.

È affascinante il potere dell’oggetto fotocamera e fotografia, se poi le si paragona alla letteratura e alla sua capacità di generare miti grazie a epiche immagini mentali, la fotografia offre un qualcosa in più, un oggetto reale su cui investire il proprio sguardo; va ricordato che l’attribuzione di senso e significato dipende dalle conoscenze e dal sentimento, sia in fotografia (come in tutte le espressioni visuali) sia in letteratura, quindi le opinioni generate dall’osservazione sono soggettive.

Allora ciò che si sceglie di raccontare, per quanto semplice o di poco conto possa essere, può trovare una forma che ne acuisca il senso e il significato se tende al mito, cioè portando verso la sintesi più asciutta della comunicazione il proprio lavoro in modo che dica con il minor numero di termini (il mito è il nome della cosa o del fenomeno) ciò che mette davanti agli occhi dell’osservatore/lettore.

Questo è importante, è la contraddizione che caratterizza (per quanto ne sappia io) la comunicazione attraverso l’immagine, cioè quella che scontra la volontà del creatore di comunicare secondo i propri sentimenti e le proprie conoscenze (quindi tramite un sapere soggettivo) un qualcosa che viene interpretato dal ricevente in base ai propri sentimenti e alle proprie conoscenze (altro sapere soggettivo, per quanto universale possa essere).

È complicato, ma è così, è lo sforzo intelligente della comunicazione, la coerenza e la sintesi.

In questo concetto rientra questa serie di fotografie, scattate in un  periodo di quarantacinque minuti circa alla stazione ferroviaria di Mandello del Lario mentre ero in attesa di una persona.

-Io non sono né un illuminato né un arrivato, anzi sono tutt’altro: uno studente con le pezze al culo ma sono anche un essere pensante (il pensiero non è una scienza, ma si basa su conoscenze e pensiero soggettivi),  quindi invito l’eventuale lettore a prendere con le pinze ciò che scrivo, poiché è frutto della mia esperienza peronale-

Questo lavoro si inserisce in una ricerca teorica e di significato, con evidenti fini pratici (la serie di fotografie), che acuisca il senso dell’osservazione, del capire e interpretare la situazione che ci si trova ad affrontare; questo è solo il primo passo.

Come soggetto una stazione può non essere interessante, ma ha un valore, un suo significato e una sua ragion d’essere solo per il fatto che delle persone passano per di lì o lì aspettano.

“Per me la fotografia migliore è quella in cui ciò che più ti interessa, a livello subliminale, è in qualche modo quel che fotografi. La cosa più importante è cercare di essere in sintonia con le proprie emozioni”. Peter Marlow, Magnum Photos.

Re Daniele 22-08-12

lunedì 20 agosto 2012

Bologna, alla aicerca del Dottor Balanzon

*ATTENZIONE: il presente articolo può essere utilizzato solo per fini didattici e informativi ed è consentita la pubblicazione con indicazione di firma, data e sito dell’autore (http://www. rephotowriter.blogspot.it /), si chiede gentilmente di comunicarlo all’autore (danyre@hotmail.it)

Bologna, alla ricerca del Dottor Balanzon

 
 A Matteo Riva, affettuosamente detto Monty e a Rocco Clemente Andrea Lucariello, i miei compagni di viaggio.
La prima cosa che ho notato di Bologna e della sua gente è che questa è una città stanca, stremata, che non ce la fa più; magari sarà il caldo di fine luglio e l’inizio delle ferie, ma questa sensazione lìho letta chiaramente sui volti degli anziani, dei vecchi, che ne sanno di cose, sanno come funziona, o funzionava, la loro città.
            La stessa sensazione la percepisco camminando lungo i vecchi portici, solitari, tappezzati di insegne arabe e orientali e che non paiono essere molto curati dai residenti. Forse perché acuni di questi palazzi, sorretti dalle innumerevoli colonne, sono vuoti.
            Ma nonostante questa desolazione trovo un fervente interesse per la nuova tecnologia che avanza tra le mani di tutti noi, forse grazie al desing accattivante cui si accompagnia.
            Ma non è questo l’importante. L’importante è che ci siano ancora dei restauratori.

La sera nella piazza del Nettuno di Gianbologna si incontrano varie umanità, e ognuna di esse ha il suo tempo di permanenza in questo spazio, spesso quello di una sigaretta o di un pasto consumato velocemente su gradini dei palazzi o di uno spettacolo di artisti di strada; non è molto, sarà perché il vento caldo delle sere d’estate solleva fastidiosi schizzi d’acqua dalle bocche della Fontana che colpiscono il viso, il collo e la pelle calda e scoperta che ancora si brunisce al sole.

Molti “tipi” si ritrovano qui, in questo straordinario luogo di incontri che è la piazza, molti di strane umane umanità, quelle che si tengono un poco ai margini, in nome delle convenzioni sociali o di una personale scelta di costume.

Ma che cosa vuol dire ai margini? È difficile da spiegare: non ai margini delle attività sociali, anzi, questi tipi ne fanno parte pienamente, è più una marginalità di relazioni, è come se tra gli appartenenti a queste strane umanità e la gente cosìddetta normale (poiché il concetto di ‘normale’ è molto vago e privo di argomentazioni valide viene qui inteso nell’accezione di ‘tipico’ del posto) ci fosse una distanza silenziosa e priva di odore, come se i primi non fossero compaibili con i secondi e da nessuna delle due parti ci fosse una volontà di avvicinamento.

La logica dell’immagine irrompe nella storia e condiziona scelte, coscienze e idee. Bologna è l’immagine di una strana umanità o un contenitore nella cui ombra questa trova nascondiglio.

Bologna la rossa, una delle capitali del pensiero libero, secondo la legge, attira a sé innumerevoli soggetti, molti dei quali studenti o presunti tali, che nel suo centro, tra le colonne dei portici, professano la propria libertà, o almeno così credono, poichè assumere le sembianze, l’immagine totale, dell’archetipo di un ideale significa anche esserne schiavi e arrecare più danno all’idea che si vuole realizzare che non valorizzarla.

Le leggi, si sa, sono fatte per favorire una convivenza civile dalla quale nessuno sia escluso a priori; sono i regimi totalitari che con le loro ideologie le infrangono per meglio imporsi, a cominciare dalla libertà di pensiero. Voglio essere più chiaro: insozzare spazi e passaggi pubblici non è segno di libertà, civiltà e intelligenza, ma solo mancanza di rispetto e mala educazione; questo atteggiamento di estrema libertà denota una totale perdita della memoria e del rispetto nei suoi confronti, ma a favore di che cosa?

C’è molta storia a Bologna, come in tutta l’Italia, lo si vede non solo passeggiando lungo i portici e nelle piazza, ma anche nei musei, che da quello archeologico dell’Archiginnasio al Mambo di arte moderna testimoniano una produzione artistica e culturale ricca e variegata di grande interesse.

Ma chi era il Balanzone?

“Il titolo conta poco quando si recita a soggetto: contano invece il brio e la capacità degli attori di improvvisare situazioni intorno a maschere dal carattere ben definito. Il dottor Balanzon (detto anche Spacca Strummulo, Francoli, Bombarda e Scatolon, Dottor Lembron ch’an guaress icion) è un cialtrone che non fa parlare chi seco parla, sentenzia sempre a sproposito, crede di essere filosofo, scenziato, medico, astronomo ed avvocato e di tutto parla e vanera. La maschera (XVI° secolo) vuol canzonare quei dotti che dotti non sono, quei falsi sapienti che appestavano l’aria con tutta la loro sapienza”. Da “Le Cento Città” edito da

Passando tra gli antichi palazzi delle vie del centro si percepisce la presenza della storia e il suo scorrere di cui sono intrisi i rossi mattoni della facciate - quante storie potrebbero raccontare quelle pietre se potessero parlare - tanto che bisogna fare attenzione ai fantasmi della notte quando si osserva la città nei suoi antichi riflessi.

Girovagando per la città, sentendo un po’ la fatica, ci si siede su di un muretto per fumare una sigaretta o un toscanello e può capitare, in queste ignare pause, che taluni personaggi tengano con il fortunato fumatore una lezione di storia, di diritto o di qualsiasi altra cosa sia oggetto di studio e interesse del libero pensiero. Non è dato sapere quanto autorevoli siano questi loquaci e attenti personaggi, né quali titoli di studio psseggano né se siano sotto l’effetto di una qualche sostanza psicotropa. Comunque sia ascoltare l’opinione d’altri e confrontarla con la propria può solo far bene, è così infatti che si nutre il pensiero.

Sotto portici, tra i campanelli e le porte delle case, compaiono di tanto in tanto delle grandi portoni in legno con accanto una targa recitante “Chiesa di san …”, dove, al loro interno, trovano riparo i matti dei portici. Incredibile come l’immagine dell’infinito percorso tutto fatto di incroci e salti, creato dal fluire dei portici, rispecchi così bene al matto vagabondare alla ricerca della verità, in un brillante caos interiore che avvicina questi esseri al cielo più di tutti quanti noi.

Questa è un cosa che insegna Bologna: la vita è fatta di amore dato e ricevuto e di soffernza anch’essa data e ricevuta, e l’accesso ad un mondo più alto di questo, sul quale poggiamo i piedi, è rso possibile alla somma di questi quattro addendi. I matti sono già a metà strada: essi ricevono grandi sofferenze e sono capaci di provare grande amore.

Ecco a voi il dottor Balanzon.

Re Daniele 16-08-2012



giovedì 9 agosto 2012

Roland Barthes, la camera chiara

Commento a “La Camera Chiara” di Roland Barthes

In breve, l’analisi attuata da Barthes parte dal sentimento, ciò che io (Lui) provo di fronte a un’immagine fotografica, in quanto “io” sono misura e riferimento del sapere fotografico e dell’analisi di cui sto investendo la foto, cioè lo studium, il sapere culturale che traggo dall’osservazione dell’immagine.
Questa analisi presuppone un altro elemento, il punctum, che è in diretta relazione con il sentimento: perché quella foto mi interessa, mi avviene e mi anima. il fatto di non conoscere la causa di quest’attrazione o predilezione per una foto in particolare è un motivo di forte interesse ad approfondire lo studium e lo giustifica.
Il noema della fotografia si desume dal fatto che ciò che io vedo, il referente della fotografia, è stato posto davanti alla macchina fotografica; “è da questa mescolanza di stato reale e stato passato che si attesta il noema “è stato”; ciò che io vedo è realmente stato lì, in quanto la fotografia è contingenza pura e porta sempre con sé il suo referente”.
Ma il ragionamento non si ferma qui: il tempo assume quindi un grado di importanza essenziale nella lettura della foto e nella sua percezione, anche come morte. Io sono qui e ora, ma “perché?”, si chiede Brthes.
Il tempo passato e quello presente si rincontrano nello studium in quanto non è possibile prescindere dall’esperienza personale (vissuta nell’oggi) e dal fatto che la fotografia rappresenta il passato.
Barthes accenna alla fotografia come l’immagine della morte nel tentativo di perpetuare l’immagine della vita, in un’epoca in cui il monumento funebre, ricordo del defunto per onorarne la vita, perde di senso e significato e la fotografia ne sostituisce le funzioni. In ogni società c’è infatti bisogno dell’immagine della Morte, territorio di grande e suggestivo interesse che attende di essere indagato appieno.
La conclusione del saggio non dà risposte, ma lascia la mente libera di scegliere quale strada seguire: ritorna al sentimento da cui parte.
Il titolo, La Camera Chiara, è riferito all’ultimo passo di questo ragionamento: l’aria di un soggetto, ciò che io percepisco del un volto di una persona, non passa da una camera obscura, bensì essa è “l’ombra luminosa” del soggetto, un qualcosa che esiste ed è sempre lì in virtù del fatto che il soggetto esiste e che si collega a me tramite un canale luminoso di affetto (sentimento) e ragionamento (idea e pensiero).
Pazza o savia? È pazza se dice o se non dice? Se dice troppo o troppo poco? Se è reale o illusoria?
“È saggia se il suo realismo resta relativo”, “Sta a me scegliere se aggiogare il suo spettacolo al codice civilizzato delle illusioni perfette”, “ è pazza se è assolutamente reale, se porta alla mente la lettera del Tempo: moto propriamente revulsivo” che inverte il corso del ragionamento riportandolo alla realtà e al noema “è stato”, quindi affermando il passare del tempo, dandone una prova certa, “l’estasi fotografica”, quando riporta alla coscienza il reale che ci appare incomprensibile in quanto non può essere codificato nella sua totalità in immagini o illusioni.
È savia quando non aggiungendo informazioni si presenta come immagine all’interno del tempo quotidiano, quindi in quanto immagine non è del tutto reale e in parte illusoria, con la medesima forma, o meglio logica, di tutti gli altri miti del nostro tempo, che in quanto tali sono immagine e illusione di un qualcosa.
È pazza quando porta con sé dei messaggi che arrivano alla coscienza e svegliandola le comunicano che la realtà “è stata” proprio cosi.
In conclusione cosa dire di più? Per operare e capire qualcosa è meglio seguire l’istinto, ascoltare la pancia e il sentimento e poi usare la testa.
Noema: nella filosofia di Aristotele, l’oggetto dell’intuizione intellettiva allo stato puro; nella filosofia di Husserl, la modalità oggettiva dell’apparire della cosa nell’esperienza vissuta. Significato di un glissema: voce o espressione oscura o non usuale; nota esplicativa di tale voce.
Re Daniele 19-06/07-08-12

sabato 4 agosto 2012

David Hamilton

*Attenzione: la seguente biografia è frutto di una ricerca personale che prende informazioni da varie fonti: i siti http://www.storiadellafotografia.it/; da erticoli e recnesioni pubblicati dalle pagine artistiche e culturali di http://www.corriere.it/,  http://www.repubblica.it/,  http://www.ilsole24ore.com/, http://it.wikipedia.org/wiki/Pagina_principale; le pubblicazioni “I Grandi Fotografi” edito da Fabbri  e curato da Romeo Martinez e Bryn Cambpell, “I Grandi Fotografi, Testimonianze e Visioni del Nostro Tempo: Magnum Photos” edito da Hachette e Il Sole 24 Ore in collaborazione con Contrasto (http://www.contrasto.it/), “FotoNote” edito dalla Contrasto, “Breve Storia della Fotografia” di Jean-A. Keim edito da Enaudi.
*ATTENZIONE: il presente articolo può essere utilizzato solo per fini didattici  e informativi ed è consentita la pubblicazione con indicazione di firma, data e sito dell’autore (http://www. rephotowriter.blogspot.it /), si chiede gentilmente di comunicarlo all’autore (danyre@hotmail.it)

David Hamilton

David Hamilton osserva la fanciulla e la donna con l’occhio tipico dell’uomo, da osservatore  ignaro e inconsapevole di quello che sta osservando e di ciò che sta accadendo ed al tempo stesso stupito da quello che ai suoi occhi viene rivelato, il mistero e l’essenza più intima della donna.
“Cacciatore di sogni, l'uomo dagli occhi chiari insegue farfalle adolescenti con ali tenui, appena uscite dalla crisalide... Con delicatezza, per non sciuparle, le imprigiona immediatamente in una grande casa perduta, la sua casa, dove le osserva a lungo... Il fantomatico cacciatore vaga di camera in camera, silenzioso come le sue farfalle. È alla ricerca di qualche cosa, di cui ignora completamente la natura. Spinge, dolcemente, il battente di una porta. Si ferma. Osserva e, finalmente, vede. Il suo nome è David Hamilton...”
Questo mistero è la scoperta della propria femminilità e la consapevolezza della sensualità, celate dall’innocenza e dall’inconsapevolezza, che già sono presenti nella più intima essenza della fanciulla ma sconosciute e quasi irraggiungibili poiché protette dalla purezza dell’infanzia, quel che si rivela agli occhi di Hamilton è questa scoperta, che però rimane ancora incompiuta, velata dalla dolcezza dei giovani corpi.
Il motivo della ricerca di Hamilton è la fanciulla, che come una farfalla esce dalla crisalide per spiegare le proprie ali e scoprire la vita, diventa donna, scopre il proprio corpo, la propria intimità, la propria sensualità, ma sempre circondata da un alone di mistero, sia verso se stessa e la propria intimità che verso il mondo e gli altri (gli uomini), di innocenza e purezza che persistono in questo passaggio dall’infanzia alla giovinezza rendendo unico ed irripetibile questo momento.
All’intimità s’aggiunge la ricerca della forma e dell’espressione della vita, Hamilton trova in questo momento dell’esistenza la massima pienezza vitale che nasce dalle scoperte appena fatte e dal desiderio e al tempo stesso paura dell’amore.
Solo l'attimo fugace descritto da Rodin: “la vera giovinezza, quella della pubertà virginale, il momento in cui il corpo ricco di linfa vitale e di vigore intatto rivela una lieve e agile fierezza e sembra invocare e, al tempo stesso, temere l'amore, quel momento che dura solo pochi mesi”.
La ricerca di una realtà diversa, ineffabile, una realtà che forse non esiste affatto, una sensibilità, una tenerezza dolce e una profonda nostalgia del tempo che fugge.
Il fulcro della sua ossessione artistica è la fanciulla, nel momento in cui si apre ancora inconsapevole alla sua vita di donna; David Hamilton ama troppo intensamente questa sua fonte di ispirazione per non circondarla di purezza e essenzialità.
Hamilton ci presenta le sue modelle come se fossero fate o creature fantastiche, che non possono vivere nel nostro mondo, perché forse quello che egli ricerca con tanto ardore non può esistere in questo mondo o forse è troppo breve e delicato per essere conoscibile ed apprezzato  nella sua intera essenza.
Hamilton è consapevole che in questo mondo non può esistere un simile momento e cosi sublimi bellezza e dolcezza, per questo ci apre le porte del suo giardino, un luogo metafisico, irreale, dove lì e solo lì abitano e vivono, come nude ninfe, le sue fanciulle nel momento in cui innocenza e scoperta dolcemente coesistono, rendono magica e attraente la fanciulla.
Jardin Secret (Giardino segreto), titolo che sintetizza tutta l'opera di Hamilton, in due parole chiave: il "giardino" che racchiude tutto il colore e la bellezza in cui la sua ispirazione si arricchisce e si evolve, e il "segreto" che rivela il grado di apertura, di rivelazione di se stesso cui egli si abbandona, il pudore e il riserbo con cui si esprime.
È evidente che la fanciulla di Hamilton è universale, collocata in una dimensione atemporale.
Le opere di Hamilton sono più simili a quadri che non a fotografie, in quanto egli conscio dell’impossibilità dell’esistenza e della persistenza nella realtà di questi momenti stimola l’intelligenza ed il pensiero con la grande  potenza dell’immaginario, che è più facilmente ricreabile, esprimibile e percepibile attraverso una tela dipinta, per comunicarci la sua scoperta e se possibile immergerci nel suo mondo, ne suo giardino, per far “toccare con mano”, per fare l’esperienza della dolce visione e sublime scoperta della donna, di ciò che realmente è.
La sua è una realtà fatta di immagini irreali, troppo belle per esistere al difuori dell’immagine sfocata.
Per meglio definire le sue stesse immagini cita Maupassant: “La bellezza, la bellezza armonica. Nulla esiste, al di fuori della bellezza... La linea di un corpo, di una statua o di una montagna, i colori di un dipinto...”.
Mona, la sua compagna, la moglie fra tante fanciulle: Robert Gordon esprime perfettamente ciò che ella rappresenta: “Mona è il simbolo della ricerca della perfezione da cui Hamilton è ossessionato. La sua è una bellezza classica; le fotografie che la ritraggono sono un omaggio alla sua grazia armoniosa e alla sua innata eleganza. Personaggio mitico, ella rappresenta l'ispirazione dell'artista e non ne svela il mistero...”

giovedì 2 agosto 2012

Richard Avedon

*Attenzione: la seguente biografia è frutto di una ricerca personale che prende informazioni da varie fonti: i siti http://www.storiadellafotografia.it/; da erticoli e recnesioni pubblicati dalle pagine artistiche e culturali di http://www.corriere.it/,  http://www.repubblica.it/,  http://www.ilsole24ore.com/, http://it.wikipedia.org/wiki/Pagina_principale; le pubblicazioni “I Grandi Fotografi” edito da Fabbri  e curato da Romeo Martinez e Bryn Cambpell, “I Grandi Fotografi, Testimonianze e Visioni del Nostro Tempo: Magnum Photos” edito da Hachette e Il Sole 24 Ore in collaborazione con Contrasto (http://www.contrasto.it/), “FotoNote” edito dalla Contrasto, “Breve Storia della Fotografia” di Jean-A. Keim edito da Enaudi.
*ATTENZIONE: il presente articolo può essere utilizzato solo per fini didattici  e informativi ed è consentita la pubblicazione con indicazione di firma, data e sito dell’autore (http://www. rephotowriter.blogspot.it /), si chiede gentilmente di comunicarlo all’autore (danyre@hotmail.it)











Richard Avedon



Richard Avedon fotografo di moda e ritrattista statunitense, noto in tutto il mondo, nasce a New York il 15 maggio 1923, muore a San Antonio, il 1 ottobre 2004.
Fotografo di moda anticonformista, Richard Avedon mette da parte i manierismi per ottenere emozioni, sorrisi e soprattutto naturalezza. Sia per la rivista Vogue o Harper’s Bazaar, è colui che coglie l'istante.
«Se passa un giorno in cui non ho fatto qualcosa legato alla fotografia, è come se avessi trascurato qualcosa di essenziale. E' come se mi fossi dimenticato di svegliarmi».
Avedon era "un comunicatore straordinario". Attraverso un affascinante gioco di seduzione, riusciva a tirare fuori dai suoi soggetti gesti di una forza e di una spontaneità unica. Li conquistava e le loro espressioni cambiavano perché entravano in un'altra dimensione, diversa e lontana dal set fotografico. Una dimensione in cui c'erano soltanto loro e il fotografo.
Scapestrato e sempre in cerca di forti emozioni, nel 1942 abbandona gli studi, per lui noiosi, per arruolarsi come fotografo nella Marina Militare dove ha modo di girare per il mondo e fare  esperienze nelle situazioni più difficili.
Profondamente colpito dalle foto di Mukancsi, al suo ritorno in America si dà da fare per affinare le sue competenze tecniche. Dopo la dura ma fruttuosa gavetta nell'esercito, assegnato alle autopsie e alle foto d'identità, alla fine della seconda guerra mondiale diventa fotografo professionista. Sale il suo primo gradino professionale:  diventa aiuto fotografo in uno studio privato per poi collaborare anche con la rivista “The Elm”.
Negli anni '40 segue un corso alla New School for Social Research tenuto da Alexy Brodovitch, direttore di Harper's Bazaar. In seguito va a far parte del gruppo stabile di Bazaar a parigi, grazie all'ammirazione che Brodovitch ha  per lui. Quest'ultimo rappresenta senz'altro una figura di rilievo per il fotografo, come è ben visibile dal primo libro pubblicitario di Avedon "Observation" ( con testi di Truman Capote), pubblicato nel 1959 e dedicato al suo mai dimenticato pigmalione.
In questo periodo nascie il suo stile personale, che rivoluzionerà tutta la fotografia di moda successiva, cioè porta la moda fuori dagli studi, in ambientazioni urbane e cittadine e le da un movimento che non ha mai avuto prima.
Per il suo metodo di guidare le modelle nei gesti e nelle posture è stato soprannominato il “fotografo ballerino”.
Sin da subito risultò evidente che si trattava di uomo con un’opera ed un progetto non scindibili dalla storia dell’arte. Avedon aveva scoperto un nuovo modo per dare espressività alle modelle che nelle sue fotografie non apparivano più come “appendiabiti” ma come persone reali, dei personaggi, aveva trasformato la monotona foto di moda in qualcosa di vivo e reale.
Nel 1961 diviene direttore artistico di Bazaar. Il suo secondo libro, "Nothing Personal" (con testi di James Baldwin) viene  pubblicato nel 1963 dopo aver visitato gli stati del sud: vi emerge l'attenzione per i diritti civili e la presa di posizione politica ed etica, con tendenza a strutturare ogni lavoro come fosse una storia.
Il 22 novembre 1963 realizza in Times Square una serie di foto a persone che mostrano il giornale che parla dell'assassinio di Kennedy. Nel 1965 passa da Bazaar a Vogue.
Nei primi anni '70, con Arbus, pubblica un libro su “Alice nel paese delle meraviglie”, nel quale, come in un lavoro dello studio di Andy Warhol, le fotografie hanno un aspetto teatrale per la sequenzialità e la gestualità studiata dei personaggi fotografati. Amante innanzitutto dei ritratti, Richard Avedon abbandona gli studi fotografici per tornare agli shooting di strada ritraendo anonimi. Malati internati negli ospedali psichiatrici, manifestanti contro la guerra in Vietnam, Avedon riesce cosi a svelare una sensibilità che oltrepassa la vita mondana predestinata. Dal 1979 al 1985 esegue numerosi ritratti di vagabondi e disadattati nel West americano che vengono definiti offensivi per gli abitanti di quelle regioni, talvolta criticato per la sua assenza di autocensura riguardo gli USA, Richard Avedon fa le orecchie da mercante dipingendo il vero volto del suo paese.
Anche nel ritratto, a cui l’autore si è dedicato contemporaneamente alle foto di moda, Avedon si è imposto per la sua intensità, emotivamente denso e permeato di atmosfere cupe.
Ritratti di uomini di stato, artisti, attori ed attrici laddove comunemente ci si aspetterebbe un’immagine fissa, rigida di una persona, la sua fotografia scardina l’icona della foto da cartolina. Che si tratti di star del cinema come Katherine Hepburn, Humphrey Bogart, Brigitte Bardot, Audrey Hepburn, Marilyn Monroe o ancora Buster Keaton e Charles Chaplin, o personalità del calibro di Karen Blixen, Truman Capote, Henry Kissinger, Dwight D. Eisenhower, Edward Kennedy, The Beatles, Andy Warhol e Francis Bacon, ogni ritratto si imprime nella memoria in modo indelebile e ci restituisce di ognuno, l’idea e l’immagine del personaggio pubblico e privato.
Nel capodanno del 1989 Avedon si reca a Berlino vicino alla Porta di Brandeburgo in occasione della caduta del muro, mostrando ancora una volta che il suo lavoro non è solo rivolto alla moda  ma rappresenta uno strumento sensibile per capire mutamenti politici, risvolti psicologici o filosofici. Va sottolineato come Avedon, da intellettuale della fotografia qual è, ha sempre sostenuto il ruolo di elaborazione che svolge il fare stesso della fotografia, un luogo che non rappresenta mai la “verità”. Le sue stesse fotografie sono un mirabile risultato di pensiero ed elaborazione e quasi mai si affidano al caso.
«Le mie fotografie non vogliono andare al di là della superficie, sono piuttosto letture di ciò che sta sopra. Ho una grande fede nella superficie che, quando è interessante, comporta in sé infinite tracce.»
Una delle sue foto più famose, “Dovima”, ad esempio, ritrae una modella che indossa un abito da sera di Dior in una posa estremamente innaturale in mezzo a due elefanti: è stata scattata a Parigi nel 1955 e rappresenta il massimo dell'artificio.
In seguito collabora con le riviste più prestigiose come The New Yorker e Rolling Stone.
Altri suoi celebri lavori sono i suoi ritratti di artisti e personaggi famosi, ma anche le serie scattate alla gente comune e all'interno di un ospedale psichiatrico.
«Marilyn Monroe alla macchina fotografica offriva più di qualsiasi altra attrice, o donna, che io abbia mai inquadrato: era infinitamente più paziente, più esigente con se stessa e più a suo agio di fronte all’obiettivo che non quando ne era lontana».
Autentico mago, Richard Avedon abbatte i cliché per ricostruire un nuovo volto alla fotografia. Nel corso degli anni, realizza le foto dei Beatles, di Charlie Chaplin o di Marylin Monroe, oggi ancora considerate come dei monumenti della storia fotografica e che continuano ancora, per la loro forza e per la loro intensità, ad essere vere icone, irresistibili e affascinanti, del nostro tempo.
La sua grandezza artistica è stata celebrata in una bellissima mostra al Metropolitan Museum di New York.
Ottantunenne ancora in attività, mentre stava realizzando un servizio fotografico in vista delle elezioni presidenziali americane per conto del "New Yorker", è stato colpito da un ictus cerebrale e l'1 ottobre 2004 muore in un ospedale di San Antonio, in Texas.

Lewis Caroll

*Attenzione: la seguente biografia è frutto di una ricerca personale che prende informazioni da varie fonti: i siti http://www.storiadellafotografia.it/; da erticoli e recnesioni pubblicati dalle pagine artistiche e culturali di http://www.corriere.it/,  http://www.repubblica.it/,  http://www.ilsole24ore.com/, http://it.wikipedia.org/wiki/Pagina_principale; le pubblicazioni “I Grandi Fotografi” edito da Fabbri  e curato da Romeo Martinez e Bryn Cambpell, “I Grandi Fotografi, Testimonianze e Visioni del Nostro Tempo: Magnum Photos” edito da Hachette e Il Sole 24 Ore in collaborazione con Contrasto (http://www.contrasto.it/), “FotoNote” edito dalla Contrasto, “Breve Storia della Fotografia” di Jean-A. Keim edito da Enaudi.
*ATTENZIONE: il presente articolo può essere utilizzato solo per fini didattici  e informativi ed è consentita la pubblicazione con indicazione di firma, data e sito dell’autore (http://www. rephotowriter.blogspot.it /), si chiede gentilmente di comunicarlo all’autore (danyre@hotmail.it)

Lewis Caroll, pseudonimo di Charles Lutwidge Dodgson

Lewis Carroll, pseudonimo di Charles Lutwidge Dodgson  nato a Daresbury il 23 gennaio 1832 e morto a Guildford il 14 gennaio 1898, è stato scrittore, matematico, fotografo e logico britannico, celebre per i romanzi Alice nel Paese delle Meraviglie e Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò, opere  apprezzate da una gran varietà di lettori.
La famiglia Dodgson era del nord Inghilterra, con sangue irlandese, Anglicana e conservatrice.
Charles nacque a Daresbury, terzo di undici fratelli . Quando Charles aveva 11 anni, la famiglia si trasferì nello Yorkshire, dove rimasero per 25 anni.
Nei primi anni della sua vita, Charles studiò a casa, con un precettore. Il registro delle sue letture, testimonia quanto fosse precoce; a sette anni lesse il romanzo allegorico religioso Il viaggio del pellegrino di John Bunyan. Soffriva di balbuzie, problema che ebbe effetti negativi sulla sua vita sociale.
A dodici anni fu mandato a studiare presso una scuola privata a Richmond, e passò alla Rugby School,  nel 1845, nella quale si è portati a credere, da scritti dello stesso Dogson, che subì violenze sessuali dai preti.
Dodgson lasciò la scuola di Rugby nel 1850, iscrivendosi poi alla Christ Church di Oxford. Qui ricevette la notizia che sua madre era morta di "infiammazione del cervello" (meningite o ictus).
Qualsiasi fossero i sentimenti di Dodgson per la morte della madre, non lasciò che lo distraessero dagli studi. Era eccezionalmente dotato, e ricevette numerosi riconoscimenti formali per i suoi notevoli risultati.
A Oxford gli fu anche diagnosticata una forma di epilessia, problema che all'epoca era un fardello sul piano sociale. Recentemente, John Hughes, direttore della clinica di epilessia dell'Università dell'Illinois, ha sostenuto che la diagnosi era sbagliata. Carroll soffriva probabilmente di una forma emicranica detta emicrania con aura, dove il dolore emicranico è preceduto da particolari sintomi neurologici simili per certi versi all'epilessia (perdita parziale del campo visivo, visione di luci a zig zag). Molti sostengono che questa sintomatologia abbia ispirato alcuni elementi delle sue opere.
Nel 1856, Dodgson iniziò a interessarsi alla fotografia, alla quale fu introdotto dapprima da uno zio, più tardi da un amico di Oxford ed infine dal pioniere della fotografia Oscar Rejlander.
La fotografia si rivelò uno strumento ideale per esprimere la sua filosofia personale, centrata sull'idea della divinità di ciò che Dodgson chiamava "bellezza": uno stato di grazia, di perfezione morale, estetica e fisica. Dodgson trovava questa bellezza nel teatro, nella poesia, nelle formule matematiche e soprattutto nella figura umana. In seguito, giunse a identificare questa idea di bellezza con il recupero dell'innocenza perduta dell'Eden. Come ebbe a notare il suo biografo Morton Cohen, con questa visione decisamente poco vittoriana Dodgson "rifiutava il principio calvinista del peccato originale, sostituendolo con il concetto opposto di divinità innata".
La visione artistica e filosofica di Dodgson domina il suo approccio alla fotografia. Dal saggio Lewis Carroll, Photographer di Roger Taylor (2002), che contiene tutte le foto di Dodgson ancora in nostro possesso, risulta che oltre la metà dei suoi lavori erano ritratti di bambine. La maggior parte delle ragazze ritratte scrivevano il proprio nome in un angolo della stampa, per cui i loro nomi sono quasi tutti noti. La sua modella preferita era Alexandra Kitchin "Xie"; Dodgson la ritrasse circa cinquanta volte fra i 5 e i 16 anni. Nel 1880 cercò di ottenere il permesso di fotografarla in costume da bagno, senza riuscirvi.
Si pensa che Dodgson abbia distrutto o restituito, le fotografie di nudo; tuttavia, almeno sei stampe son sopravvissute. Il fatto che Dodgson fotografasse o disegnasse ragazzine nude ha contribuito alla tesi che fosse un pedofilo.
Scopo primario di queste fotografie era esorcizzare le violenze subite alla Rugby School; altro obiettivo della fotografia di Dodgson è quello di liberarsi del fardello della simbologia vittoriana, ritraendo le sue giovani modelle più come fate, libere creature dei boschi, che come beneducate damigelle della buona società inglese.
Dodgson utilizzò la fotografia anche per introdursi nei circoli sociali più esclusivi. Fece ritratti per personaggi di spicco del suo tempo come John Everett Millais, Ellen Terry, Dante Gabriel Rossetti, Julia Margaret Cameron e Alfred Tennyson. Si dedicò anche a qualche paesaggio e qualche studio di anatomia.
Fra il 1854 e il 1856 Dodgson iniziò a pubblicare poesie e racconti su riviste nazionali e locali.
Diversi anni prima di Alice iniziò a pensare come realizzare libri per bambini che potessero vendere bene.
Quando giunse alla Christ Church un nuovo rettore, Henry Liddell, Dodgson ne divenne ottimo amico di famiglia e in particolare della signora e dei figli. Con le tre figlie Ina, Alice e Edith era solito fare giri in barca. Fu durante una di queste gite, nel 1862, che Dodgson inventò le linee generali di una storia fantastica per divertire le tre bambine. Alice Liddell lo pregò di metterla per iscritto. Ne nacque un manoscritto intitolato Alice's Adventures Under Ground. In seguito Dodgson si decise a sottoporre il libro all'editore MacMillan, che lo apprezzò molto. Furono necessarie diverse revisioni finché nel 1865 vide finalmente la luce Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie, firmato da "Lewis Carroll", con illustrazioni di John Tenniel.
Il libro ebbe un successo immediato e travolgente, e "Lewis Carroll" divenne presto un amatissimo e famosissimo personaggio pubblico, quasi un alter ego che conduceva una vita propria, parallela a quella di Dodgson. Al nome "Lewis Carroll" vennero associati gradualmente una serie di miti, incentrati sull'idea che si trattasse di un personaggio bizzarro, quasi venuto da un mondo fatato fatto di bambine e magia. Dodgson continuò a insegnare fino al 1881; rimase alla Christ Church fino alla morte, avvenuta nel 1898 per bronchite, conducendo la sua solita vita; ma Carroll continuò a scrivere. Nel 1872 pubblicò Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò.
Smise improvvisamente di fotografare nel 1880, dopo 24 anni di attività e oltre 3000 foto; meno di un terzo di queste sono sopravvissute; alcune sono state deliberatamente bruciate dallo stesso autore. È andato perduto anche il diario in cui Dodgson annotava minuziosamente le condizioni in cui aveva realizzato ciascuno scatto.
Dimenticato dal 1920 al 1960 a causa dell'avvento del modernismo, Dodgson viene considerato uno dei più grandi fotografi dell'epoca vittoriana, e certamente uno di quelli che ha maggiormente influito sulla fotografia artistica moderna.
Socialmente ambizioso, voleva a tutti i costi fare qualcosa per cui essere ricordato, inizialmente come scrittore o come pittore. La fotografia fu all'inizio un ripiego rispetto alla pittura, nella quale Dodgson pensava di non essere dotato.
Nonostante la sua vita fosse focalizzata sulla dimensione sociale, Dodgson coltivava una ricca vita spirituale, che emerge sporadicamente nei suoi scritti. Commentando una canzone che compariva nel romanzo Alton Locke di Charles Kingsley ebbe a dire:
« È una bellissima canzone ...  mi chiedo se alcuno dei presenti sia entrato nello spirito di Alton Locke. Non credo. Penso che il carattere delle persone che incontro sia nella maggior parte dei casi quello di un raffinato animale ... Come sono pochi quelli che sembrano occuparsi di ciò che realmente conta nella vita».
I testi Alice nel paese delle meraviglie e Alice attraverso lo specchio, nascondono sottili giochi matematici, sintomo della grande intelligenza e genialità di questo autore.
Si è propensi a credere che Carol fosse anche affetto da autismo.

Roger Fenton


*Attenzione: la seguente biografia è frutto di una ricerca personale che prende informazioni da varie fonti: i siti http://www.storiadellafotografia.it/; da erticoli e recnesioni pubblicati dalle pagine artistiche e culturali di http://www.corriere.it/,  http://www.repubblica.it/,  http://www.ilsole24ore.com/, http://it.wikipedia.org/wiki/Pagina_principale; le pubblicazioni “I Grandi Fotografi” edito da Fabbri  e curato da Romeo Martinez e Bryn Cambpell, “I Grandi Fotografi, Testimonianze e Visioni del Nostro Tempo: Magnum Photos” edito da Hachette e Il Sole 24 Ore in collaborazione con Contrasto (http://www.contrasto.it/), “FotoNote” edito dalla Contrasto, “Breve Storia della Fotografia” di Jean-A. Keim edito da Enaudi.
*ATTENZIONE: il presente articolo può essere utilizzato solo per fini didattici  e informativi ed è consentita la pubblicazione con indicazione di firma, data e sito dell’autore (http://www. rephotowriter.blogspot.it /), si chiede gentilmente di comunicarlo all’autore (danyre@hotmail.it)


Roger Fenton

Roger Fenton nasce a Heywood, Inghilterra, il 20 marzo 1829, muore a Londra l’8 agosto 1869 a soli quarant’anni d’età.
Nel 1841, ancora giovanissimo, si reca a Parigi per studiare diritto e fare pratica di pittura presso l’atelier del pittore Paul Delaroche, dove conosce il futuro fotografo Gustave Le Gray.
Negli anni successivi, fino al 1851, effettua numerosi viaggi e soggiorni a Parigi imparando le tecniche fotografiche e specializzandosi tanto da decidere di intraprendere l’attività di fotografo.
Nel 1852 si reca in Russia dove esegue numerose riprese fotografiche, sia relative alla costruzione di un ponte sospeso sul fiume Dniepr, sia nelle città di Kiev, Mosca e San Pietroburgo.
Nel 1853 è già un fotografo affermato in Gran Bretagna, fonda la Royal Photographic Society e dall’anno successivo comincia ad eseguire ritratti della famiglia reale inglese.
E’ in virtù del suo impegno presso la Royal Photographic Society che nel 1854 avrà l’incarico di fotografo ufficiale della guerra di Crimea, diventando il primo reporter di guerra della storia della fotografia.
Il governo britannico aveva fin dall’inizio valutato l’importanza di documentare fotograficamente il conflitto, ma senza successo: per questo motivo nel 1854 viene chiesto l’aiuto della Royal Photographic Society e Fenton si offre volontariamente come operatore.
Ottenuti finanziamenti dal Ministero della Guerra, dalla Corona e da un editore di libri illustrati, progetta e si fa costruire un carro fotografico capace di trasportare trentasei casse contenenti il materiale sensibile nonché le attrezzature da ripresa e stampa; vi sono caricate circa 700 lastre al collodio e l’interno è praticamente formato da una serie di camere oscure: all’esterno appare la scritta “Photographic Van”.
Fenton affronta due viaggi in Crimea.
Durante il primo viaggio documenta  crudeltà e  crudezza della guerra, gli scontri e i massacri riprendendo immagini di morti ammazzati sui campi di battaglia e gli ammassi dei cadaveri.
in condizioni logistiche e di ripresa estremamente critiche, sia per quanto riguarda l’aspetto specificamente tecnico/fotografico, sia per i rischi personali a cui deve esporsi.
Uno dei primi problemi tecnici incontrati è la temperatura del luogo, tale da deteriorare rapidamente i bagni di sensibilizzazione,  sviluppo e fissaggio; il materiale fotosensibile che egli utilizza, le lastre al collodio umido, richiedono di essere immerse nella soluzione di sali d’argento pochi minuti prima dell’esposizione e di venire sviluppate subito dopo, così che egli è costretto a lavorare soprattutto all’alba quando il calore non è ancora tale da compromettere tutto.
Altro problema è la necessità di nascondere l’ingombrante carro ai tiri dell’artiglieria russa, che sembra accanirsi sul misterioso veicolo, ritenendolo probabilmente un obiettivo importante dal punto di vista militare.
Tornato in Inghilterra viene criticato e il suo lavoro non viene pubblicato perché ritenuto troppo violento dalla corona inglese.
Nel febbraio 1855 è pronto a partire e si imbarca sulla nave Hecla con destinazione Crimea.
Rimane sul teatro di guerra da marzo a giugno 1855, realizzando circa 360 fotografie.
Il taglio che Fenton dà alle sue immagini è quello della documentazione di una impresa militare per conto del governo che l’ha promossa: si tratta quindi di immortalare i luoghi, i personaggi, le truppe senza mostrare però gli aspetti più tragici e terribili delle battaglie come le distese dei morti dopo gli assalti o le sofferenze dei feriti e dei mutilati.
Le sue foto insomma sono tali da far rendere accettabile all’opinione pubblica inglese la spedizione in Crimea e ciononostante l’insieme delle immagini costituisce un reportage di grande interesse, in quanto per la prima volta vengono mostrate le realtà degli accampamenti militari e  delle fortificazioni.
E’ naturalmente molto rilevante anche l’aspetto più squisitamente documentario, trattandosi, a prescindere dalle vicende belliche, di luoghi così lontani dall’Inghilterra.
A giugno viene contagiato dal colera che sta mietendo vittime così numerose tra i soldati britannici che alla fine della guerra il numero dei morti per malattie sarà superiore a quello dei caduti in combattimento; è costretto a rientrare in patria pochi mesi prima della decisiva battaglia di Sebastopoli, la cui caduta, nel mese di settembre, sarà invece documentata appunto da Felice Beato e da James Robertson.
Al suo ritorno viene allestita a Londra una mostra fotografica nella quale espone 312 immagini.
La sua carriera di fotografo è legata praticamente alle sole riprese eseguite in Crimea e al fatto di essere stato il primo a documentare una guerra: nel 1862 abbandona la professione e vende l’attrezzatura.





Eadweard Muybridge


*Attenzione: la seguente biografia è frutto di una ricerca personale che prende informazioni da varie fonti: i siti http://www.storiadellafotografia.it/; da erticoli e recnesioni pubblicati dalle pagine artistiche e culturali di http://www.corriere.it/,  http://www.repubblica.it/,  http://www.ilsole24ore.com/, http://it.wikipedia.org/wiki/Pagina_principale; le pubblicazioni “I Grandi Fotografi” edito da Fabbri  e curato da Romeo Martinez e Bryn Cambpell, “I Grandi Fotografi, Testimonianze e Visioni del Nostro Tempo: Magnum Photos” edito da Hachette e Il Sole 24 Ore in collaborazione con Contrasto (http://www.contrasto.it/), “FotoNote” edito dalla Contrasto, “Breve Storia della Fotografia” di Jean-A. Keim edito da Enaudi.
*ATTENZIONE: il presente articolo può essere utilizzato solo per fini didattici  e informativi ed è consentita la pubblicazione con indicazione di firma, data e sito dell’autore (http://www. rephotowriter.blogspot.it /), si chiede gentilmente di comunicarlo all’autore (danyre@hotmail.it)


Eadweard Muybridge

Eadweard Muybridge nasce a Kingston upon Thames il 9 aprile 1830, fotografo inglese fu pioniere della fotografia del movimento. Battezzato Edward James Muggeridge, cambiò il cognome prima in Muygridge, infine in Muybridge.
Trasferitosi negli Stati Uniti avvia un’attività di libraio, poi di editore ed infine si dedica alla fotografia.
Inizia a sperimentare la sterografia, sistema di visione simultanea di due fotografie di  uno stesso soggetto (paesaggi e architetture) l’una di poco spostata nello spazio rispetto all’altra e con toni leggermente diversi cosi da dare l’illusione della tridimensionalità dell’immagine.
Il primo lavoro di una certa rilevanza è una serie di immagini dello Yosemite Park e della città di S.Francisco (dove vive),  che vengono pubblicate con lo pseudonimo di “Helios”.
Nel 1872 l'uomo d'affari e governatore della California Leland Stanford chiese a Muybridge di confermare la sua ipotesi che nel galoppo di un cavallo esiste un istante in cui tutte le zampe sono sollevate da terra ma non nel momento di massima estensione.
Questa non è solo la tesi sostenuta da Stanford, ma è convinzione comune ritienere che il cavallo si stacchi completamente da terra nella posizione di massima estensione delle zampe; questa situazione durante il galoppo è anche stata spesso raffigurata in quadri e disegni degli inizi del XIX secolo.
Proprio in questo periodo si verifica un evento drammatico, che per un po’ distoglie Muybridge dalla fotografia: è il 1874 quando scopre che sua moglie ha un amante e che questi è il sindaco di S. Francisco, Harry Larkyns.
Il 17 ottobre di quell’anno lo affronta e gli spara, uccidendolo; viene processato ed assolto perché l’omicidio è ritenuto giustificato.
Nonostante l’assoluzione, Muybridge decide di trasferirsi prima in Messico e poi in Centro America dove lavora presso compagnie ferroviarie di cui Stanford è comproprietario.
Rientra negli States nel 1877 e riprende le sue ricerche, sempre sovvenzionato da Stanford, che gli fornisce lo spazio (un galoppatoio) e l’aiuto di alcuni tecnici della Pacific Railroad.
Nel 1878 riesce a fotografare un cavallo in corsa utilizzando 24 fotocamere, sistemate parallelamente alla direzione del moto dell’animale, che vengono fatte scattare in sequenza da un filo colpito dagli zoccoli del cavallo; la serie di fotografie viene chiamata The Horse in motion e mostra come gli zoccoli si sollevino dal terreno contemporaneamente, ma non quando si trovano nella posizione di completa estensione.
I risultati di Muybridge sconvolsero la convinzione comune che il cavallo si staccasse completamente da terra nella posizione di massima estensione e questi risultati influenzarono pesantemente l'attività dei pittori, che si affidarono sempre più al mezzo fotografico per meglio riprodurre quello che l'occhio umano confonde. Molti pittori utilizzarono fotografie di figure umane per copiarle nei loro quadri e si arrivò anche alla pittura diretta su lastra fotografica. L'analisi forse più attenta del movimento catturato da Muybridge venne portata a termine da Edgar Degas, che studiò a fondo tutte le posizioni assunte dal cavallo.
L'impegno di Degas gli fu riconosciuto anche da Paul Valéry, che aggiunse:
« Le fotografie di Muybridge rivelano chiaramente gli errori in cui sono incorsi tutti gli scultori e i pittori quando hanno voluto rappresentare le diverse andature del cavallo »
(Degas Danse Dessin, Paul Valéry, 1938)
In seguito conduce altre ricerche al fine di riprendere immagini in movimento e studiare il movimento degli animali e delle persone; a questo scopo ottiene  un finanziamento dall’università della Pennsylvania e realizza migliaia di immagini, ma la sua attività mostra limiti evidenti dal punto di vista scientifico essendo egli più uno sperimentatore che uno scienziato.
Le sue sequenze di persone nude che eseguono movimenti spesso fine a se stessi hanno valore maggiore come immagini fotografiche piuttosto che come strumenti di analisi e di ricerca.
Progettò lo Zoopraxiscopio, uno strumento simile allo Zoetropio, per la proiezione delle immagini permettendone la visione a più persone contemporaneamente. Le sequenze animate che poi realizza prendono il nome di stop motin, primo passo che dalla fotografia porterà al cinema, la cui invenzione avverrà tra il 1901-02 ad opera dei fratelli Loumier. Il sistema da lui inventato è un precursore del cinema, per questo egli è considerato un precursore della ripresa cinematografica.
Nel 1894 ritorna in Inghilterra, muore l’8 maggio 1904 a Kingston upon Thames.