martedì 19 marzo 2013

Lee Friedlander

*Attenzione: la seguente biografia è frutto di una ricerca personale che prende informazioni da varie fonti: i siti http://www.storiadellafotografia.it/,http://2photo.org/lee-friedlander-fotografo/Wikipedia, http://www.fondazionefotografia.it/it/people/friedlander/, http://initinere.forumfree.it/?t=57357799, http://www.madonnashots.net/0-78-friedlander1.html, http://www.alfonso76.com/dblog/articolo.asp?articolo=620, http://marcocrupifoto.blogspot.it/2013/02/lee-friedlander-maestri-della-fotografia.html, di Alessandra Santina Severino; da erticoli e recnesioni pubblicati dalle pagine artistiche e culturali di http://www.corriere.it/, http://www.repubblica.it/, http://www.ilsole24ore.com/, http://it.wikipedia.org/wiki/Pagina_principale; le pubblicazioni “I Grandi Fotografi” edito da Fabbri  e curato da Romeo Martinez e Bryn Cambpell, “I Grandi Fotografi, Testimonianze e Visioni del Nostro Tempo: Magnum Photos” edito da Hachette e Il Sole 24 Ore in collaborazione con Contrasto (http://www.contrasto.it/), “FotoNote” edito dalla Contrasto, “Breve Storia della Fotografia” di Jean-A. Keim edito da Enaudi.


Lee Friedlander

Lee Friedlander, nasce a Aberdeen il 14 luglio 1934, fotografo statunitense tra i maggiori autori di fotografia documentaria dagli anni ‘60 ad oggi ed esponente della street photography assieme all’amico Garry Winogrand.
Friedlander ha studiato fotografia presso l'Art Center College of Design di Pasadena, in California. Nel 1956 si trasferisce a New York City dove realizza ritratti di musicisti jazz, fotografandoli per le copertine dei loro dischi. Spontaneità, intimità, complicità e gusto del reportage si fondono in fotografie dotate talvolta anche di un certo grado di indagine psicologica.
In particolare a New York ha l’occasione di incontrare Walker Evans, Robert Frank, Diane Arbus e Garry Winogrand, insieme al quale promuove la street photography, genere che formerà tanti fotografi delle successive generazioni.
Nel 1960 Lee Friedlander si aggiudica la borsa di studio della Guggenheim Memorial Foundation, la quale gli consente di concentrarsi sul suo lavoro di ricerca personale; negli anni seguenti la fiducia nel suo operare viene rinnovata con altre due borse di studio della Guggenheim Memorial Foundation, una nel 1962 e l’altra nel 1977.
Alcune delle sue fotografie più famose appaiono nel numero di settembre del 1985 sulla rivista Playboy: si tratta di immagini di nudo in bianco e nero di Madonna, all'epoca studentessa, pagata 25$ per il servizio fotografico.
Lee Friedlander lavorava principalmente con una Leica 35 mm e pellicola in bianco e nero, la sua fotografia è caratterizzata da immagini di vita urbana, con strutture incorniciate da cartelli e insegne a documentare l'aspetto caotico della vita moderna.
Nel 1963, Friedlander espone al Museo Internazionale di Fotografia presso la George Eastman House, sua prima mostra personale. Nel 1967 le sue fotografie compaiono nella mostra "New Documents" curata da John Szarkowski al Museum of Modern Art di New York insieme a Garry Winogrand e Diane Arbus.
Nel 1990, la Fondazione MacArthur gli concede una ulteriore borsa di studio.
Lee Friedlander lavora oggi principalmente con fotocamere medio formato; sofferente di artrite e non autosufficiente, si dedica a fotografare i suoi dintorni. Anche il suo libro "Stems", prodotto prima e dopo l'intervento chirurgico di sostituzione del ginocchio, riflette la sua vita e le sue limitazioni.
Uno dei lavori più importanti di Lee Friendlander è "The Little Screens", una serie di fotografie dedicate ai televisori realizzate negli anni sessanta e ordinata solo nel 2001: fotografate in stanze di motel o soggiorni domestici, le TV trasmettono immagini in ambienti anonimi e desolanti, in cui l'unica presenza umana è quella di politici, star, neonati, criminali, o persone comuni che irrompono dagli schermi. "The Little Screens" testimonia l'affermarsi del potere dirompente dei media
-  passaggio epocale nella società americana - e come altre ricerche di Friedlander, si basa su quello sguardo ironico e libero da convenzioni formali che ha profondamente innovato il linguaggio documentario.

Autore dallo sguardo e attento alle persone , le sue immagini acquistano significato se si leggono mediante le regole della pittura cubista, espressionista, astratta e dell’accumulazione e del collage della Pop Art, il tutto realizzato nella maniera peculiare ed unitaria tipica del linguaggio e della tecnica fotografica, che attraverso la composizione di luci taglienti e dell’incastro dei volumi di case o insegne stradali consente al fotografo di abbattere la barriera della saturazione visiva creando un ordine della confusione, attuata attraverso l’indagine da più punti di vista di oggetti e situazioni urbane quotidiane; in questo senso si può notare una comunanza con l’Action Painting di Jackson Pollock, con i microsegni di Tobey o i gesti cadenzati di Rothko.
Sulla scia di Eugène Atget, Walker Evans e Robert Frank, si pone la ricerca di Lee Friedlander che continua il racconto delle grandi metropoli e dei grandi spazi degli Stati Uniti, seguendo un impostazione che si potrebbe definire vicina al free jazz, che unisce l’improvvisazione a schemi rigidi e precisi di costruzione dell’immagini.
La sua cifra stilistica ed il suo interesse sono segnati da quella che egli stesso definì "American social landscape", un insieme di scene colte dal quotidiano flusso degli eventi della società americana che raccontano l'anima più intima dell'America.
Nelle sue fotografie è assente ogni traccia di lirismo, sono una rappresentazione della realtà che, appunto per questo, sembrano allontanarsi da essa.
Le sue fotografie sono uno studio approfondito del paesaggio sociale americano, capaci di far risaltare l’ordinario quotidiano che si riflette nelle pose dei taglialegna dell’Alberta o nelle parate delle città del midwest. Lo spazio raccontato non è più quello smisurato di Ansel Adams o di Weston ma è lo spazio delle città in rapida evoluzione, della periferia dimenticata, del movimento fugace senza ricerca di sensazionalismi o di momenti decisivi.
Le fotografie di Lee Friedlander giocano sull’ambiguità dello spazio e del suo significato che si riflette nell’indagine del “doppio”, da qui tutta la serie dei suoi autoritratti, i quali documentano la presa di coscienza di un medium che pur riuscendo a carpire i particolari anonimi di un paesaggio difficilmente registra con esattezza scientifica i pensieri.
Nelle sue foto Friedlander esprime in modo particolare la presenza del fotografo e il suo ruolo attivo e personale nella creazione dell'immagine fotografica: spesso nelle fotografie si ritrova la figura del fotografo sotto forma di ombra o riflessa in specchi e vetrate.
La ricerca di Friedlander esplora in profondità il paesaggio urbano e sociale statunitense, raccontando il modo in cui lo sguardo non può più procedere in modo lineare né spaziare all'orizzonte, ma è costretto a rimbalzare e a farsi largo in un accumulo di segni sempre più intricato. Le sue immagini in bianco e nero hanno la capacità di dare ordine a questo caos, combinando sulla superficie fotografica un'incredibile quantità di elementi urbani e naturali, architettonici e umani: alcuni, come pali della luce, nuche di passanti o cartelloni pubblicitari, ostacolano e frammentano la visione d'insieme dello spazio fotografico; altri, come specchietti d'auto, vetrine di negozi, parabrezza o vetrate di edifici, moltiplicano i punti di osservazione del reale, suggerendo una stratificazione di significati che solo la fotografia può racchiudere e decifrare.
Opera nelle grandi metropoli, documentando l’ordinario quotidiano ed esplicitando l’ambiguità dello spazio, facendo cogliere anche i particolari più anonimi di un paesaggio. Percepisce il presente come un’entità intrinsecamente incompleta o addirittura non intelligibile. Il presente, per Friedlander è difficile da comprendere, forse lo si può percepire solo se rifratto attraverso specchi e finestre (il doppio). Sulla base di questa convinzione, per quindici anni noleggiò automobili con le quali attraversò gli Stati Uniti e li raccontò attraverso gli specchietti retrovisori.
“L’uso di automobili era riconducibile al fatto che sono mezzi dinamici, ma illusori dai quali osservare la realtà.
Le sue inquadrature sono spontanee, i suoi paesaggi urbani sono colmi di sovrapposizioni, immagini spezzate, giochi di luce, riflessi, ombre, relazioni e correlazioni; non nasconde ciò che vede, ma lo serve agli occhi dell'osservatore esattamente per ciò che è, notare come guardando le sue opere si abbia l'impressione che il “momento decisivo” sia la foto in sé e non ciò che in essa è rappresentato.
Il modo di auto-ritrarsi, il giocare con la propria ombra, resa soggetto attivo all'interno dell'immagine, l'utilizzo insistito delle riflessioni, delle specchiature, delle sovrapposizioni, della molteplicità, dell'accumulazione, dipingono un linguaggio fotografico innovativo, capace di utilizzare come elementi di espressione ciò che prima era semplicemente considerato un errore fotografico”. Alessandra Santina Severino